Si vuole qui parlare di uno 
            dei gruppi più sottovalutati (di loro si hanno pochissime notizie 
            biografiche e anche le foto s
carseggiano) 
            eppure in assoluto più validi ed originali della storia del rock. 
            I Minimal Compact, israeliani, autori di una musica cupa e straziante, 
            ma dalle venature mediorientali. Eppure si trattava di un derivato 
            del punk, e che cosa voleva dire fare rock in medio oriente? Cosa 
            può aver significato esportare lesperienza punk nel deserto 
            più conteso dalle tre religioni del mediterraneo?
            Certo, Rami Fortis (foto a destra) , chitarrista e cantante di origini 
            italo-irakene, deve aver pensato che lesperienza del kibbutz, 
            in quanto principalmente (se non eminentemente) di sinistra, poteva/doveva 
            accogliere il punk a braccia aperte, come musica di rottura, come 
            musica anticapitalista per eccellenza. Ma il punk da solo non poteva 
            bastare: Israele non era lInghilterra (e men che meno Tel-Aviv 
            era Londra), non cera nessuna vetusta monarchia da distruggere, 
            ma un paese dai fragili equilibri interni ed internazionali dove tutto 
            doveva essere costruito, persino lidentità nazionale. E liconoclastia 
            del punk non poteva certo essere ben vista.
            Ci voleva qualcosa di più, ci voleva la forza della poesia. Per questo 
            Fortis decise di collaborare col DJ e poeta Samy Birnbach, che poté 
            stabilirsi solo con il ruolo di voce principale. In seguito si aggiunse 
            la bassista (ma cantante anchella) Malka Spigel, Yoyo 
            per gli amici, tanto inetta allo strumento da ammetterlo pubblicamente. 
            I tre si trovavano in una stanza a provare, tutti e tre attaccati 
            ad un unico amplificatore e, al limite, con lausilio di una 
            batteria elettronica. Una formazione minima, quindi, anzi minimal-compatta.
            E Rami Fortis in Israele era un mito, certo, ma per chi? Per scarsissime 
            frange di illuminati, per giovani che inseguivano i suoni (e forsanche 
            i sogni) europei, per i pochi che rifiutavano radicalmente lautoghettizzazione 
            in cui il loro paese stava lentamente ma inesorabilmente scivolando 
            (autoghettizzazione così spesso tipica del popolo ebraico stesso). 
            Per questo si unì a lui, con lentusiasmo del fan esaltato, il 
            tastierista/chitarrista Berry Sakharof, ebreo turco dorigine 
            russa. Finalmente un vero musicista, accettato dal gruppo a braccia 
            aperte.
            Ma gli anni 70 si erano appena conclusi, con tutto il carico di dolore 
            e incomprensione che si portavano dietro: guerra di Kippur, crisi 
            petrolifera, intifada, guerra civile in Libano. In Israele stava succedendo 
            esattamente lopposto di quello per cui Rami Fortis e compagni 
            si battevano ogni giorno, ovvero la nascita di un paese aperto, progressista, 
            quando non proprio socialista. Giocoforza stavano invece vincendo 
            le destre, il militarismo violento, loscurantismo. Quando la 
            situazione arrivò a farsi insopportabile, Birnbach, Sakharof e la 
            Spigel partirono per lEuropa, invertendo il flusso migratorio 
            che aveva caratterizzato il popolo ebraico dal lontano 1949, mentre 
            Fortis decise di rimanere nel paese a combattere con la 
            sua poetica, con la sua musica. Negli anni che seguirono conobbe un 
            destino di ostilità sempre crescente da parte delle autorità ed anche 
            della gente comune (secondo la quale era un traditore o, almeno, un 
            inutile provocatore), quando non fu bellamente e semplicemente ignorato.
            Birnbach, Sakharof e la Spigel girarono per lEuropa errabondi, 
            suonando agli angoli delle strade, dormendo in alloggi di fortuna, 
            tra gli squatter, nei centri sociali. 
Nel 1981, per una 
            serie di casi, risiedevano più o meno stabilmente ad Amsterdam. Fu 
            lì che Il loro strano post-punk poetico, venato di melodie arabeggianti 
            ed incupito dallattitudine pessimista di Samy Birnbach, fece 
            presto breccia nel cuore di molte persone, che si riveleranno fondamentali 
            per la loro prossima evoluzione artistica: innanzitutto il gruppo 
            elettro-new wave olandese dei Mecano, quindi Marc Hollander, fondatore 
            a Bruxelles di una neonata etichetta discografica indipendente, la 
            Crammed Discs. Con laiuto e lincoraggiamento dei Mecano, 
            che prestarono loro strumenti e sala prove, i tre poterono mettere 
            a punto le loro prime composizioni. Che dovettero esercitare una notevole 
            impressione su Hollander, se arrivarono a convincerlo di pubblicare 
            subito un Ep al gruppo dalla formazione minimal-compatta, lomonimo 
            Minimal Compact.
            Il cantato è in inglese, perché quella era la musica del momento, 
            ma la dedica era a lui, il loro eroe, mèntore e fondatore del gruppo: 
            il mitico Rami Fortis member in exile, present in his absence 
            (è necessario tradurre?). Per il resto, oltre a loro, i musicisti 
            erano lo stesso Hollander al sax e clarinetto, più gli amici Mecano: 
            Corrie Bolten a synth, chitarra e flauto, Pieter Bannenberg a batteria 
            e percussioni, il batterista Stefan Claro ed il polistrumentista Dick 
            Polak che si occupava anche della produzione.
            Petto femminile in copertina, il disco cominciava subito con un loro 
            (poi) famosissimo ballabile: la paradossale Statik Dancin. 
            Un ritmo veloce ed incalzante, tra il be-bop e la tarantella, un basso 
            new wave come pochi, percussioni, fiati. Poi una chitarra in sincope 
            funky che apre la strada alla voce bassa e sconsolata di Birnbach: 
            elemento determinante per non comparare il brano a qualcosa dei Devo. 
            Tuttavia, per quanto simpatica e paradossale (oltre che loro piccolo 
            hit), Statik Dancin risulta un po rigidina e ripetitiva. 
            Più atmosferico lingresso della successiva I Am a Camera, 
            che si avvaleva dei versi del poeta beat americano Bob Kaufman (anchegli 
            in odore di ebraismo), benché il titolo fosse quello di una celebre 
            pièce teatrale di Van Druten. Il brano è strano e maestoso, 
            ben sottolineato da una scala di basso e da liriche molto intense: 
            «His death is a saving grace, creation is perfect, I am a camera» 
            (la sua morte è grazia salvifica, la creazione è perfetta, io sono 
            una macchina fotografica). Tastiere importanti, chitarre destabilizzanti, 
            oboi bizzarri, qualcosa di mai sentito prima.
            Nadir di depressione è Ready-made Diary, probabilmente autobiografica 
            («life is so much more secure in Europe
», la vita è molto più 
            sicura in Europa). La musica è sconsolata e raggelante, inizialmente 
            sostenuta da una fredda atmosfera di synth, in seguito la ritmica 
            cresce scatenandosi in un assurdo funky del medio oriente. Poi il 
            gelo depresso, una voce catatonica che declama sconsolata. Ma la ritmica 
            funky si scatenerà una volta ancora, prima della fine catacombale. 
            Insomma un capolavoro. E tale, capolavoro depresso, sarà pure la successiva 
            To Get Inside, decisamente molto suggestiva. Un arpeggio reiterato 
            di chitarra compie tutto un giro di accordi, successivamente doppiato 
            dal basso della Spigel. Poi entra la voce, una melodia straziante 
            sullo stesso giro, un testo degno di Ian Curtis, sullineluttabilità 
            della sconfitta e sullo squallore dellesistenza quotidiana. 
            Ed il giro evolve, estasi e suicidio.
            Chiude in una sorta di flippata allegria la quasi strumentale Happy 
            Babouge (cè giusto un verso che si ripete), anchessa 
            funky, anchessa spiazzante, anchessa mediterranea. Un 
            flauto psichico destabilizzerà definitivamente il cervello dellascoltatore, 
            deliziato da un altro brano inclassificabile che termina un piccolo 
            Ep capolavoro.
          Purtroppo intorno al disco 
            era appena nato il dark e ciò rappresentò la sua fortuna a lungo termine, 
            ma anche la sua maledizione a breve. Maledizione perché, nonostante 
            la sua superba bellezza, passò del tutto inosservato, essendo gli 
            occhi (e le orecchie) di tutti orientati su quello che stava succedendo 
            in Gran Bretagna. 
            Ma alla lunga la qualità venne a galla. Per fortuna. Fu ciò che ci 
            permette ora di parlare di un gruppo come i Minimal Compact.