Quella dei New Order, in 
            fondo, è una storia triste, o perlomeno agrodolce. È la storia di 
            chi non vuole mollare, di chi si sente in diritto di andare avanti 
            comunque vada, per quanto costretto a convivere con un passato importante, 
            troppo maledettamente importante. È la storia di tre ragazzi di talento 
            che, a confronto con una delle personalità più importanti della nostra 
            epoca, hanno brillato anche di luce riflessa, mentre lasciati soli 
            a se stessi hanno mano a mano dimostrato la loro (umana) mediocrità, 
            vieppiù ridimensionando lopinione che la scena dark si era fatta 
            di loro.
            Quindi è chiaro: la storia dei New Order comincia dove finisce quella 
            dei Joy Division, qualche giorno dopo la tragica scomparsa di Ian 
            Curtis. I ragazzi si ritrovano, ma sono smarriti, sgomenti. Ora il 
            dolore di cui parlava Curtis non era solo poetico, ma vissuto nella 
            propria carne, lacerante la propria sensibilità. Ora è chitarrista 
            Bernard Albrecht che prova a misurarsi con la voce, riacquistando 
            il suo nome danagrafe: Sumner. Il batterista Stephen Morris 
            arruola la fidanzata Gillian Gilbert, a sostituire ai sintetizzatori 
            il produttore Martin Hannett (comunque sempre presente), mentre il 
            basso di Peter Hook è una certezza da sempre. I Joy Division erano 
            morti, ecco un ordine nuovo: i New Order, sempre 
ad echeggiare minacciosamente 
            voci che li volevano implicati con certa estrema destra
            Il primo atto del gruppo, lo si è già detto, avvenne nel mese di gennaio 
            dell81, con la pubblicazione del singolo Ceremony / In 
            a 
Lonely Place: due brani 
            composti con Ian Curtis (e si sente), ora goffamente imitato da Barney 
            Albrecht, pardon, Sumner. Il disco, qui presentato nelle due versioni 
            a 7 e a 12 pollici, conteneva due perle di malinconia, la prima anche 
            di rabbia, solo parzialmente edita nellincompleta registrazione 
            che apriva il disco live di Still. La seconda è grandiosa 
            e solenne desolazione interiore, il miglior epitaffio alla storia 
            del gruppo-madre che si potesse immaginare. Ma qui i New Order furono 
            ciò che tutti si aspettavano: assolutamente i Joy Division senza Ian 
            Curtis.
            Un pochetto più di personalità emerse con il secondo singolo, 
Procession 
            / Everything's Gone Green, del mese di settembre. La prima 
            si apre con un bellissimo suono di synth, maestoso ma comunque minore, 
            soffuso. Sarà il basso a scandire un tempo movimentato ed aprire la 
            strada a Morris. Ecco, al contrario del titolo, Procession 
            si fa improvvisamente solare, nonostante il tono generale un po 
            dimesso. Come unallegria dimessa, appunto, malinconica, trattenuta, 
            che sarà un po il marchio di fabbrica del gruppo, che per la 
            prima volta sfoggiava coretti femminili. Comunque un gran bel brano, 
            soprattutto nel finale, dove la chitarra tornava un po più libera 
            di esprimersi. Ma un ritmo ancora più danzereccio apriva invece Everything's 
            Gone Green, con un Hook subito intervenuto molto dinamicamente. 
            
Gli interventi della 
            Gilbert sono evidentissimi, e danno al brano un sound molto disco, 
            tuttavia senza tradire umori notturni, sottolineati bene dalla chitarra 
            e dallatmosfera generale, anche del cantato. Chi conosce la 
            loro discografia non può non costatare che questo brano è giusto il 
            primo abbozzo, lo scheletro, della futura e ben più famosa Blue 
            Mondays. Musica da discoteca depressa.
            Certo, i fan dei Joy Division storsero il naso davanti ad arrangiamenti 
            così smaccatamente dance, così come i primi storici fan del gruppo 
            storsero il naso davanti ai synth di Love will Tear us Apart. 
            Dove volevano arrivare i New Order? Fino a che punto potevano infangare 
            la memoria dellimmenso con cui ebbero lonore di collaborare? 
            Domanda viziosa per eccellenza. Nel frattempo i ragazzi non vollero 
            andare da nessuna parte, ma bensì ottemperare ai loro obblighi e doveri. 
            Ovvero celebrare degnamente lesperienza unica che ebbero veramente 
            lONORE di vivere, con la pubblicazione del doppio Still, 
            avvenuta, come tutti dovrebbero ormai sapere, nel mese di ottobre.
            Fu quindi un po giocoforza che i tre (più una) si rimmergessero 
            nella storia e nei suoni del loro recente passato. Le atmosfere cupe, 
            maledette, stralunate dei tempi che furono. E ciò non poté evitare 
            di influenzare le nuove registrazioni, avvenute sempre sotto la funerea 
            ed elettronica egida del fidato amico Martin Hannett. Fu così che 
            il 14 novembre uscì Movement, per certuni (e per lanagrafe) 
            il primo album dei New Order, per altri lultimo dei Joy Division.
            
Copertina semplice 
            e secca, sempre del fidato Saville ora fattosi minimalista, dopo un 
            poster di Fortunato Depero. Un inizio bello come inizio, sebbene il 
            brano in sé fosse abbastanza modesto: Dreams Never End, infatti, 
            attaccava bene con la chitarra, lasciandosi alle spalle fantasmi troppo 
            sintetici, ma si risolveva in una canzonetta triste sempre sullo stesso 
            giro armonico. Niente di male, per carità, ma i ragazzi potevano (e 
            forse dovevano) fare di più. Impressionante comunque il tentativo 
            di Sumner di imitare il cantato di Curtis, tentativo che, quando non 
            perfettamente riuscito, rischiava di sfociare nella parodia.
            Ahi ahi ahi, ma cosa sono questi suoni? Percussioni sintetiche? Ma 
            non si fa in tempo a schifarsi, perché entra Hook, desolato e depresso 
            come ai vecchi tempi! Si tratta di Truth, una litania lenta 
            e malinconica sul senso di straniamento, dove il fantasma di Curtis 
            la fa da padrone, anche nelle liriche: «Oh, it's a strange day, in 
            such a lonely way, I saw some children dance, I watched my life in 
            a trance» (oh, è uno starno giorno, in modo così solitario, ho visto 
            bambini ballare, ho guardato la mia vita in trance). Negli stacchi 
            di chitarra i brividi si impossessano della schiena, così come nel 
            lungo (e meraviglioso) finale rumorista. Sullorlo del pianto 
            si passa alla successiva Senses, anchessa aperta da percussioni 
            sintetiche, sebbene più dure e possenti, contrappuntate dalle tastiere 
            della Gilbert, fattesi finalmente funeree. Poi le percussioni si moltiplicano 
            e strutturano la strofa, su nota fissa e pulsante di basso. Il cantato 
            è monocorde, e anche qui il modello è uno, ma il brano è più interessante 
            per latmosfera e per le numerose varianti musicali.
            Un raggio di sole fa capolino col ritmo sostenuto della successiva 
            Chosen Time, che riprende una sorta di funky post-punk tipico 
            dei Division, per riproporlo in versione più ballabile, senza però 
            arrivare agli eccessi dei singoli. Il basso di Hook è un martello, 
            mentre i synth, ad un certo punto, cadono liquidi come una cascata. 
            Un brano tras
cinante 
            e frenetico, dove il ballo non è banale, ma le liquide tastiere lo 
            chiudono in fretta, e con lui il lato A del disco.
            Sullaltro lato Movement ricomincia con uno dei suoi brani 
            migliori, ICB, aperto dal basso possente, poi dalla batteria, 
            finalmente suonata (e non programmata) da Morris. Il buon Bernard 
            Sumner canta come il suo idolo quando era più disincantato e sprezzante, 
            intervenendo poi con la sua chitarra tagliente che tanto abbiamo amato. 
            I continui sibili di synth contribuiscono a creare quellatmosfera 
            unica tipica loro: disincantata ma depressa, monolitica ma futuribile. 
            E sarà una caduta di synth a chiudere il brano. 
            Ma ancora un basso funereo emerge, ed ancora malinconia sconsolata, 
            in un altro capolavoro degno del loro passato: The Him. Un 
            brano dalla bellezza avvolgente, tempestato di percussioni reiterate 
            e tastiere strazianti, con liriche meravigliose interrotte da stacchi 
            di accelerazione ritmica e chitarristica. «Some days you waste your 
            life away / These times I find no words to say / A crime I once committed 
            failed me / Too much of heaven's eyes I saw through / Only when meanings 
            have no reason / They're taken beyond your sense of right» (certi 
            giorni sciupi la tua vita, in questi casi non trovo parole da dire, 
            fu un crimine che commisi una volta a farmi mancare, troppi occhi 
            del cielo attraverso cui vidi, solo quando i significati non hanno 
            più ragione, vengono portati oltre il tuo senso del giusto). Dopo 
            la seconda strofa, una pausa leggermente sostenuta da una bassa tastiera 
            e poi
 lesplosione sonica! Sì, il brano esplode in una 
            sorta di cavalcata psico-straziante, dove dolenti «Im so tired» 
            della voce vengono ripetuti, fino alla fine. Da scombussolamento dellanima.
            La penultima Doubts Even Here è una solenne ballata su toni 
            più disincantati che malinconici. Né la linea melodica né larrangiamento 
            sono particolarmente interessanti, la forza del brano essendo tutta 
            nelle liriche. «In my mind, thoughts are becoming clearer, I'm watching 
            every move you make, counting time spent in observation, a single 
            blow a false mistake» (nella mia mente i pensieri stanno facendosi 
            più chiari, sto guardando ogni tua mossa, contando il tempo passato 
            ad osservare, un singolo soffio, un falso errore), ma poi la tonalità 
            sale di un pelo, il ritmo è più scandito e il brano si conclude ripetitivo 
            col contro-canto (anche qui, finalmente funereo) della Gilbert. Il 
            ritmo tornerà veloce ed accattivante per lultima Denial, 
            un brano solo leggermente discotecaro, in realtà epico e comunque 
            depresso. Linvito alla danza rasenta lirresistibile nella 
            lunga parte strumentale centrale, alla quale segue una nuova, devastante 
            riesumazione del Curtis più drammatico, senza tuttavia che il ritmo 
            cambi, anzi incalzandolo sempre più, fino allinterruzione improvvisa.
            Lascoltatore, a questo punto, rimane attonito ed incredulo. 
            35 minuti e mezzo di album sono forse troppo pochi, ma sono certamente 
            i 35 minuti e mezzo più benvenuti dai tempi di Closer (o, al 
            limite, del secondo disco di Still, quello live). I 
            Joy Division allora non sono mai morti e forse (ripeto forse, la provocazione, 
            non di chi scrive, serve solo a far riflettere) anche lispirazione 
            di Ian Curtis potrebbe essere ridimensionata da un disco simile. Un 
            grande disco, di grande dark.
          Ma allora, perché cadere 
            in tentazione? E quale tentazione poi? Ian Curtis ci sarebbe caduto 
            e con lui i Joy Division? No, probabilmente i Joy Division no. I New 
            Order invece sì. Nellaprile del 1982, solo 5 mesi dopo Movement, 
            i quattro usciranno con uno dei loro singoli più ruffiani: Temptation. 
            
Coretti melodici e ottimisti 
            aprono un brano solare e ben ritmato, certamente piacevolissimo per 
            le stazioni FM. Sumner apre con una voce insolitamente sicura, forse 
            conservando una vaga vena lunare, almeno fino allirritante ritornello, 
            veramente qualsiasi, come qualsiasi è la sezione ritmica, mai così 
            disco. O il testo sentimental/caramelloso
 una vergogna. 
            Fortunatamente il retro, Hurt, salva la credibilità del gruppo: 
            un inizio forse elettronico e sintetico, sì, ma anche obliquo e sinistro. 
            Poi anche qui la discoteca cerca di fare capolino, ma uno strano missaggio 
            underground e comunque una generale sensazione di oppressione 
            evitano le banalità, nonostante labbondanza di «give me, give 
            me, give me». Da un certo punto di vista il brano è più importante 
            di quel che appare al primo ascolto, poiché sembra quasi anticipare 
            certa house di 5 anni dopo. 
            Comunque
 che tentazione meschina! La domanda che sorge spontanea 
            è: ma ne avevano veramente bisogno?