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"The Cure: oltre la fiction"

di Fabio Patanè

Questa non è l’ennesima biografia. Di storie del gruppo, più o meno accurate, è già piena la rete.

Questo è un tentativo di riflessione su alcuni aspetti spesso trascurati dalla critica, e che secondo me vale la pena analizzare. Tenterò di farlo criticamente, spietatamente anche. L’essere spietati è – volte – un atto d’amore.

Un gruppo gotico?
Solo in un Paese stordito dal sole com’è l’Italia, o nel contesto d’una tradizione musicale pragmatica e muscolare come quella statunitense, poteva perdurare fino ad oggi il malinteso in questione. Chiunque conosca Mondo Cure, saprà che nulla ha a che fare con la scena rock gotica.
Con qualche eccezione (One Hundred Years, forse la stessa Pornography, ed alcuni versi sparsi qua e là), i dischi più oscuri del gruppo non hanno mai indulto in atmosfere o tematiche tipiche del genere in questione, o per lo meno non in maniera sistematica. Il truculento, l’orrorifico, il sacrilego, l’eccessivo, il morboso, non sono aggettivi caratteristici di Mondo Cure.
L’elemento visivo è altrettanto estraneo alla simbologia gotica. Se è pur vero che Smith ha in passato sfoggiato croci al collo, e che il video di Charlotte Sometimes richiama gli sceneggiati del brivido anni settanta targati Rai, tutto ciò rimane marginale alla costruzione di un’estetica complessivamente multiforme, onnivora, postmoderna ed eterogenea.
Three Imaginary Boys è un album post-punk/power- pop. Il brano omonimo preannuncia ciò che verrà, e definisce la Regola Dell’Ultimo Pezzo (gli adepti sapranno a cosa mi riferisco), regola che varrà fino a The Top. Ma questa canzone non è rappresentativa dell’album. 10:15 Saturday Night ha una melodia ed un ritmo irresistibili; Grinding Halt si basa sul motivo di The Locomotion; Boys Don’t Cry è un perfetto, eterno pezzo pop: chi li accusa di tradimento con l’uscita di Let’s Go To Bed, ha la memoria corta.
In realtà, Smith utilizzerà costantemente i codici e la tradizione pop per rappresentare le proprie ossessioni, e la musica dei Cure oscillerà spesso tra melodia ed asprezza, tra luminosa leggerezza e pesante oscurità, creando spesso ibridi nevrotici modernissimi ma difficilmente catalogabili.
A pensarci bene, il fallimento dei dischi più recenti sta anche in questo: nel non esser da tempo più capaci di mantenere detto equilibrio, affondando spesso nei cliché della ballata malinconica e stucchevole, o in quelli della canzoncina pop “indie”, altrettanto stucchevole.

Tim Pope.
E’ stato Tim Pope a definire la simbologia di Mondo Cure. Prima di lui, l’immagine del gruppo era più seriosa, e conforme all’estetica post-punk. I loro primi video, spartani, impacciati e poco interessanti, non aggiungevano nulla al progetto artistico in corso. Con Let’s Go To Bed si definisce una volta per tutte la maschera tragicomica di Robert Smith; entrano in scena il gioco, il surreale, lo sberleffo, concretizzandosi, col passare del tempo, in innumerevoli, squisiti, variopinti cortometraggi, sempre belli, originali ed inventivi. Grazie alla fantasia visionaria di Tim Pope (e non certo ai loro dischi), i Cure sono entrati nell’immaginario collettivo.

A Forest: un test.
A Forest rappresenta, nel contesto post-punk / new wave in cui nasce, la Canzone Perfetta. Ne possiede tutte le caratteristiche: un micidiale riff di chitarra in apertura; una struttura semplicissima ma efficace; un giro di basso perfetto; un testo perfetto; una melodia vocale perfetta; un suono originale.
Da molti anni ormai, esistono almeno due A Forest.
La prima è quella contenuta in Seventeen Seconds, dura poco meno di sei minuti, ed ha un arrangiamento glaciale e minimalista.
La seconda si è sviluppata sui palchi di tutto il mondo nel corso dei decenni, e può essere goduta nel video di Show in tutta la sua forza. E’ un pezzo più “rock”, ricco e dinamico. Dura almeno dieci minuti, e contiene improvvisazioni e cambi di ritmo.
L’esecuzione di A Forest dal vivo è lo svolgimento di un rituale. Un rituale che celebra l’appartenenza di tutti i fan allo stesso immaginario, almeno per una notte.
Così, in apertura del pezzo, si poteva (oggi, mancando sul palco un tastierista, non è più possibile) fare un test. Se il tuo vicino riconosceva la canzone già alla prima nota di sinth, voleva dire che era anche lui un fedelissimo. Se la riconosceva alla seconda nota, si trattava comunque di un fan. Se la riconosceva solo alla terza, voleva dire che trattavasi di novizio. Ma se la riconosceva soltanto alla quarta, allora poteva pure tornarsene a casa ad ascoltarsi Mixed Up.

La Vera Trilogia e il Monolite.
Ogni autentico fan sa che la Vera Trilogia è una sola, inizia con Seventeen Seconds, e si conclude con Pornography. L’altra trilogia (di cui oltre) è solo una trovata pubblicitaria.
Seventeen Seconds, Faith e Pornography sono anche – assieme a Bloodflowers - gli unici dischi in studio dei Cure a garantire una decisa coerenza stilistica.
E’ un crescendo: dal minimalismo perfetto ed acerbo di Seventeen Seconds, disco che fissa per sempre alcuni punti fermi nel suono del gruppo, alla desolazione glaciale e rarefatta di Faith (fanno qui eccezione la nevrastenica Primary, e la brutta e sgraziata Doubt – episodio veramente fuori luogo ed originalmente molto più in linea col resto del disco della versione ufficiale), alla tragedia febbricitante di Pornography, forse il loro Disco Perfetto.
Ma Pornography è ben più di un semplice disco. Intanto, esprime ancora oggi un’energia straordinaria, forse sovrumana. E’ qualcosa di vivo, di pulsante: come un animale ferito. Pornography è anche un monolite, un monolite nero. Ed un punto di non ritorno.

Un disco sottovalutato.
The Top resta un grandissimo disco, ma è considerato da molti un’opera minore. Registrato durante un periodo particolarmente difficile per Smith, è un The Head On The Door più tagliente e psichedelico. Rappresenta anche la metabolizzazione di tutto ciò che fino ad allora era stato fatto, per la creazione di un nuovo suono e di un non-genere, eterogeneo e sfuggente, e quindi ancora oggi tremendamente attuale. Drogato, psichedelico, ossessivo, angosciato, zoomorfo, scintillante, spesso geniale – e penso ai pantaloni di pelle usati per le percussioni di Caterpillar, ad esempio -, il disco contiene arrangiamenti ricchi e stratificati, allontanandosi così dal minimalismo programmatico degli inizi. E chi insiste a giudicarlo un lavoro minore, probabilmente dimentica che Shake Dog Shake, Give Me it, Caterpillar e Piggy In The Mirror sono contenuti in questo disco. Che invece non comprende episodi imbarazzanti come Screw.

Il Capolavoro.
Osservo la copertina (proto - Photoshop) di Disintegration. Confuso tra i colori, la testa di Smith stabilisce una volta per tutte che i Cure non sono un gruppo ma solo un marchio, dietro il quale si nasconde Robert Smith e la sua officina.
Un luogo comune definisce Disintegration un album stilisticamente omogeneo, e lo elegge a capolavoro del gruppo, descrivendolo come un’opera a tema sul concetto esistenziale espresso dal titolo. Riguardo ai testi, ciò è indiscutibile. Musicalmente invece, sono tutte stupidaggini.
Come in ogni disco successivo a Pornography (e con la parziale eccezione del coerente Bloodflowers), Disintegration è “soltanto” una raccolta di canzoni eterogenee, anche se è vero che in questo disco prevalgono le ballate dilatate, enfatiche ed eteree.
Disintegration è un buon disco, ma sicuramente non un capolavoro. Da un punto di vista compositivo, non ha la stessa forza degli album precedenti. Con questo lavoro, Smith perde il senso della misura (grave per un geniale artigiano della canzone come lui), e alcuni pezzi diventano auto compiaciuti, esasperanti, ed inutilmente lunghi. Con Disintegration si ferma la ricerca musicale, e si stabilisce un ulteriore archetipo. A Disintegration non si potrà che tornare ogni volta, ora accentuando la distorsione ed i feedback (Wish), ora il lato “leggero” (Wild Mood Swings), ora le atmosfere acustiche e rarefatte (Bloodflowers), e punteggiando costantemente la sequenza di ballate malinconiche con pezzi più ritmati, aggressivi e fisici, e con canzoni poppeggianti.

L’inizio della fine.
I primi segnali preoccupanti risalgono all’uscita di Kiss Me Kiss Me Kiss Me (per il sottoscritto, l’ultimo vero GRANDE album dei Cure). A chiudere il viaggio, l’agghiacciante Fight. A parte il ritornello, roboante e di cattivo gusto, quello che più mi spiazzò fu il testo. Ma come, Robert Smith che invita a REAGIRE ai mali del mondo??? Si andrà oltre solo nella tanto sfacciata quanto irresistibile Friday I’m In Love (“Let’s get happy!”)...
Dopo Disintegration, è la volta dell’inquietante Mixed Up: è di moda l’house, e Robert Smith si mette a fare il gggiovane.
A parte alcuni classici del gruppo rivestiti per l’occasione d’abiti interessanti, e la ruvida ma efficace Never Enough, l’impressione è quella di un artista confuso e tentato dal gusto dell’umiliazione commerciale.
Wish è anticipato dal singolo High. Ennesimo segnale preoccupante: la canzone è inusualmente brutta e inconcludente.
E, mentre Disintegration è il riconoscimento d’aver detto tutto, Wish si rivela il mestiere, lo stile che si fa maniera, il desiderio di adeguarsi al suono del proprio tempo – e non più di definirlo - per poter comunicare così con masse sempre più grandi di persone. Obiettivo riuscito. Wish è il successo americano, un tour massacrante, un suono e una band adatti agli stadi, un gruppo che diventa istituzione riconosciuta anche al di fuori dell’universo “alternativo”.
Con Wish i testi diventano il luogo per costruire un personale diario sentimentale, spesso povero ed irritante anche quando sentito, rinunciando quindi alle immagini, alle invenzioni poetiche e alla simbologia dei primi tempi.
Onorevole e coerente sarebbe stato chiudere con i wah wah, i feedback, ed il parossismo percussivo di End (uno dei pochi GRANDI pezzi contenuti nel disco, assieme al perfetto gioiello pop stile-AGESCI di Friday I’m In Love, e all’epica ossessiva di From The Edge of A Deep Green Sea). Niente da fare.
Il vuoto scintillante di Wild Mood Swings è anticipato da una serie d’iniziative inquietanti. Tra queste, l’ingresso del perennemente fuori luogo Jason Cooper alla batteria, brutte o inutili cover version, e Dredd Song, parte della colonna sonora del film d’azione-fumettistico Judge Dredd (all’epoca pensai ad uno scherzo).
Wild Mood Swings definisce la fine di The Cure per autodistruzione. Want, in apertura, è un’eco emozionante di Disintegration - batteria oscena a parte. Bare, in chiusura, anticipa le sonorità, il clima e lo stile di Bloodflowers. In mezzo, tante futili canzoncine, tanto mestiere, brutti arrangiamenti, percussioni e drum machine fastidiose, e qualche piacevole scintilla (il giro nostalgico di Gone!, la melodia lacrimevole di This Is A Lie).
Ma, prima di Bloodflowers, ci saranno ulteriori tappe di una caduta che ormai sembra non avere mai fine: singoli penosi, raccolte ciniche o inutili, altri pezzi per colonne sonore commerciali, altre cover mediocri.
Bloodflowers ci dice che Smith ormai va avanti per inerzia, probabilmente per istinto imprenditoriale, ma forse anche perché, semplicemente, non può più farne a meno. Ormai i Cure sono diventati la parodia di se stessi (vedi il celebre episodio di South Park), un carrozzone goffo ed immutabile che odora di stantio, ma garantisce ai fan una piacevole famigliarità. Da gruppo rivoluzionario, fuori dagli schemi, innovativo, surreale, sperimentale, originalissimo, The Cure diventa la coperta calda, le solite chitarrine liquide, i soliti controtempi di batteria, QUEL basso, QUEL modo di cantare, i soliti versi ripetuti all’infinito. Le ricorrenti dichiarazioni di scioglimento imminente diventano un penoso dejavu.

Possession: una possibile via d’uscita.
Sul succoso Join the Dots, l’inedito Possession illustra l’ipotesi stilistica inizialmente presa in considerazione prima della realizzazione di Bloodflowers, per uscire dallo stallo creativo seguito a Wish: l’elettronica.
Forse temendo di alienarsi gran parte dei devoti, forse per mancanza di dimestichezza con la programmazione di sequencer e sintetizzatori, quest’ipotesi verrà accantonata per una più rassicurante veste “acustica”, con cui rappresentare le solite quattro idee ormai in orbita dai tempi di Kiss Me Kiss Me Kiss Me.
Peccato, perché il pezzo funziona. Non certo in senso armonico o melodico (è abbastanza monotono), ma – probabilmente grazie all’aiuto di Paul Corkett, che co-produce - riesce a creare un’atmosfera densa e convincente. E moderna.
In realtà i Cure hanno da tempo dimostrato un limite evidente nel gestire l’elettronica. Quando si è voluto “rinnovare” il suono per attualizzarlo, si è sempre ricaduti in trovatine dance da quattro soldi (Just Say Yes, l’intro di Watching Me Fall, 39), o ci si è affidati agli esperti del remix . Anche i suoni di tastiera, con gli anni, si sono fatti più “vecchi” e rozzi. Paradossalmente con il rientro in formazione di O’ Donnell (tastierista capace e tecnico), questo scollamento sonoro si è fatto palese: basti pensare – nell’era dei campionatori – ai suoni poveri di piano sintetizzato presenti in Wild Mood Swings o Bloodflowers. Ciò che dovrebbe – nelle intenzioni, presumo – svecchiare la formula, finisce per affossarla. Strano, perché l’elettronica casalinga di The Walk o di Blue Sunshine è ancora attuale.
I Cure ormai suonano “vecchi”, bolliti, auto compiaciuti, retorici, persino fastidiosi.
Dopo Bloodflowers, dopo l’ennesima fine rimandata, ulteriori episodi inutili (Cut Here), ulteriore raccolta di singoli, e un duetto inqualificabile (con la cantante dei Republica). Esce il dvd di Trilogy, obiettivamente un lavoro musicalmente molto ricco ed interessante.

Oltre la Fiction.
2003: Smith si fa cinico, lascia l’indipendente Fiction per accasarsi con la Geffen/Universal, e fare così un’ulteriore barca di soldi. “The Cure” diventa un marchio commerciale, sfruttabile pienamente grazie ai mezzi della nuova casa madre.Ha così inizio un’operazione di marketing enorme e spudorata, che coinvolgerà, negli anni a venire, gran parte del catalogo audio, diversi eventi, e quintali di merchandising.

Ogni album in studio viene progressivamente rilanciato sul mercato in una nuova ed allettante “deluxe edition”, comprensiva dell’immancabile versione rimasterizzata e di tracce inedite spesso superflue, quando non imbarazzanti. Ma ora è la quantità che conta più della qualità, e il lancio dell’evento in sé piuttosto che il senso del progetto. E’ la legge del marketing.

E’ in quest’ottica manageriale quindi, che si deve leggere l’organizzazione del sito ufficiale attuale, l’enfasi data ad eTunes e Amazon.com, accanto all’immancabile “online store”.

La trilogia che non esiste.

E’ già in quest’ottica che si può comprendere progetti concettualmente assurdi come quello di Trilogy.

Per pubblicizzare efficacemente Bloodflowers, stanco, inutile e manierato disco di un cantautore compiaciuto della propria aridità creativa, Smith s’inventa la conclusione di una trilogia, ufficialmente nata con Pornography e proseguita con Disintegration. Gran parte dei media – pappagalli conformisti – ribadiranno all’infinito questa trovata. I primi due dischi non hanno però nulla in comune, né musicalmente né nello stile o nelle tematiche dei testi. Bloodflowers ha invece molto in comune con Disintegration, condividendone la monotona ed auto-compiaciuta prolissità di molti pezzi, e lo stile dei testi. Musicalmente, Bloodflowers appartiene invece ad un’ipotetica trilogia iniziata con Disintegration, e proseguita ovviamente con Wish: se lo spettro sonoro si fa ora arioso, ora saturo di feedback, ora autunnale e fintamente acustico, le idee, gli arrangiamenti, le progressioni armoniche, i riff, rimangono sempre gli stessi.

Creato il “gancio” (“la trilogia”), ecco pronto l’evento (i concerti dove vengono eseguiti per intero tutti e tre gli album suddetti), ed il gadget (il dvd “Trilogy”).

Il Fattore Cooper.

Oggi prosperano le pagine web dedicate alla presunta inferiorità genetica di Jason Cooper. Il suo stile anonimo però, ed il suono spesso fuori luogo e rozzo, sono piuttosto indicatori di una minore volontà di controllo da parte di Smith – tradizionalmente colui che dettava le linee-guida anche per le parti di batteria- sugli arrangiamenti, e quindi di un suo minore coinvolgimento nel progetto. Ma quest’apparente assenza di cuore è contraddetta dal sentimento di cui sono intrise le sue performance canore più recenti. Ennesimo enigma di un artista ricco di contraddizioni.

Scorie.

Gli ultimi anni e gli ultimi due dischi in studio non meritano particolari riflessioni.

I Cure in quanto gruppo post-punk o ultrapop, geniali ed eccitanti principianti della musica alternativa, non esistono più.

La musica alternativa, la vendita di cd, i generi musicali, anche tutto ciò non esiste più.

Oggi ci sono la Rete e l’iPod, e prevale un ascolto onnivoro, nevrotico, frettoloso.

Oggi esiste solo Zio Bob, un ciccione truccato e vestito come i media e la casa discografica esigono, una bambola guasta e stranita che esiste per intrattenere un pubblico ormai globalizzato e quindi informe, recitando la parte della maschera timburtoniana, perennemente triste, assente e patetico.

La voce è l’unico miracolo sopravvissuto: il timbro è rimasto inalterato, il canto si è fatto con gli anni più espressivo e capace.

Quel timbro ricorda i bei tempi che furono, e tutto ciò rende il presente ancora più triste.