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di Gianmario Mattacheo

INTRO

Apparentemente non è facile affrontare l’esame della storia discografica di uno dei gruppi più influenti degli ultimi trent’anni.
Questo, infatti, rappresentano i Cure, sia per innumerevoli artisti che hanno preso spunto dalla musica dei “ragazzi immaginari”, sia per il nutrito popolo di fan che segue con passione le vicende degli inglesi.
Affrontare un esame della loro discografia equivale, soprattutto per chi sta scrivendo, a ripercorrere la crescita artistica di Robert James Smith, fondatore, mente, compositore e anima della band.

Nato a Blackpool il 21 aprile 1959 il cantante e chitarrista (ma all’occorrenza bassista, tastierista, violinista, ecc.) ha, dalla creazione del gruppo, plasmato la band a sua immagine e somiglianza, divenendone l’unico elemento presente su ogni incisione e caratterizzando la band dentro e fuori dal palco.
Al riguardo, sarà possibile osservare come Robert Smith, a dispetto della fama di timido che da sempre lo precede, abbia operato una serie di “rimpasti” della formazione, ogniqualvolta qualche elemento del gruppo entrava in contrasto con l’impronta musicale dettata dall’unico deus ex machina del gruppo.
Come sostenne in alcune interviste, Robert Smith definì particolare la democrazia che regna all’interno della band. In sostanza, ognuno ha diritto di parola e di decisione, ma solo fintantoché questi atti non vadano a contrastare con le decisioni del leader.
E a questa situazione si poté arrivare esclusivamente attraverso il grandissimo carisma e l’altrettanto grande personalità del chitarrista. È questa l’unica chiave di lettura possibile che ci consente di spiegare perché, dopo trent’anni, sono ancora in circolazione e, soprattutto, in ottima salute (e come potremmo pensare il contrario per una band capace di scrivere, nel 2008, un brano come “Underneath the stars”!).
È questo uno dei loro grandi segreti : chi l’ha ascoltato ed osservato non può non riconoscere a Robert Smith un’innata tendenza alla leadership, caratterizzata da una personalità unica.
Un carattere così forte che ha indotto grandi artisti a collaborare con la band o, ancora, ha portato lo stesso leader a duettare con emergenti gruppi ancora da svezzare. Ne esce un quadro alquanto eterogeneo che comprende, tra gli altri, David Bowie (duetto in occasione del cinquantesimo compleanno del Duca Bianco), the Glove e Siouxsie and the Banshees (progetti paralleli all’esperienza Cure), i Blink 182, i Korn (pregevole l’unplugged che ha visto i cure ospiti in “Inbetween days/Make me bad”), Blank and Jones, Paul Hartnoll (Orbital), i Placebo e Billy Corgan, per citarne solo alcuni.
Tali considerazioni diventano ancora più forti se ci immaginiamo i loro live show. Questi non sono “fisici” (pensiamo ad un Dave Gahan o ad un Mick Jagger, per esempio) e Robert Smith rimane praticamente immobile durante lo spettacolo.
Tuttavia, il leader è dotato di un magnetismo che nessun altro artista possiede. Non ha bisogno di muoversi o stupire (anche se durante l’esecuzione dei pezzi più pop si diletta in esilaranti balletti); la sua presenza è già talmente forte che riesce a calamitare gli sguardi di tutti e toccare il cuore di ogni singolo fan.
Non è infrequente ascoltare, in chi non li ama, parole di stima nei confronti di Robert Smith. Può piacere o non piacere, ma non gli si può negare la straordinaria personalità e l’indiscussa professionalità.
Ecco che, al tredicesimo album, ci si può sbizzarrire su quello che potrebbe essere il migliore capitolo discografico degli inglesi. Ci si può divertire inventando alcune fasi artistiche che hanno caratterizzato la carriera di Robert Smith, e via discorrendo.
Così, ad esempio, sarà facile considerare l’esordio discografico di “Three imaginary boys” come un lavoro a sé stante, ancora influenzato dalla moda punk del momento, o, ancora, si potrà individuare negli album “Seventeen seconds, “Fatith” e “Pornography” il periodo dark della band (pensiero condiviso dai più).
Tutte teorie che spesso contrastano con quelle dello stesso Robert Smith.
Così, ad esempio, il sopraccitato assunto in forza del quale il loro periodo dark cesserebbe con “Pornography”, contrasta con il pensiero del leader che, nel 2003, dette alle stampe “Trilogy”, un’opera comprendente i tre veri dark album della band: “Pornography”, “Disintegration” e “Bloodflowers”.
Ognuno, infatti, ha una percezione propria delle singole canzoni e degli album dei Cure; questo fa si che, in merito alla discografia di un grande gruppo (del più grande gruppo, direbbe chi scrive), non esista un’interpretazione comune a tutti, ma soltanto un’interpretazione.
Esistono alcuni elementi oggettivi in una recensione: l’indicazione delle canzoni, la line up, la copertina (anche se questa può essere diversamente interpretata!), lo studio di registrazione, ecc.; ed esistono, altresì, elementi che sono vissuti intimamente dal recensore.
L’intento del presente lavoro è proprio quello di unire i due aspetti sopra esposti. Accanto ai riferimenti oggettivi, traspariranno un po’ di quelle emozioni che mi hanno spinto ad amare così intimamente la band.
È bello poter continuare a sognare con le proprie passioni ed è fantastico avere la certezza di non poterne mai guarire; “I must fight this sickness …… find a cure”.

(foto: Robert Smith insieme a Gianmario Mattacheo)

 

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