The CURE
Songs of a Lost World
CD / LP (Fiction)
Scrivere questa recensione ha, per me, un sapore davvero particolare,
innanzitutto per la sua genesi, in quanto rigira nella mia testa da
almeno sedici anni, ma anche per la sua difficile gestazione, che aveva
fatto diventare l’ultimo in studio dei Cure uno dei tanti album
fantasma della storia del rock.
La vicenda è conosciuta da tutti. Un album annunciato così tante volte
da diventare quasi una barzelletta, in cui lo stesso Robert Smith
finiva per essere attore, vittima e unico sceneggiatore di un romanzo
dissolto (“Tolkien avrebbe preso spunto per riscrivere “Racconti
perduti”).
Una recensione che avevo già immaginato in testa troppe volte, da quel
“4.13 dream”, targato 2008 e ultima fatica sulla lunga distanza dei
Cure.
In queste molte recensioni mai scritte, mi immaginavo raccontare un
album eccellente, un ritorno in grande stile per la storica band
inglese.
Ma era il mio status di fan che parlava: l’amore ti fa essere
passionale, ma assai poco obiettivo. Se rileggo i miei report degli
ultimi due album della ditta, mi accorgo di quanto questo sentimento
abbia influenzato molto il mio senso critico. Non c’è dubbio che le
ultime due prove in studio siano le più deboli di tutta una carriera e
“Bloodflowers”, album del 2000, finiva in realtà per essere l’ultimo
grande capolavoro dei Cure. Insomma, mi abituavo a scrivere di cose
straordinarie, quando, più verosimilmente, mi sarei trovato di fronte a
canzoni ordinarie.
Poi, però. Poi, però, stava cambiando qualcosa …
Tour dopo tour i Cure hanno iniziato a concedere pezzi nuovi in
anteprima di un album ancora lontano dalla pubblicazione, ma dal sapore
già speciale. Lo scossone, in tal senso, arrivò con i concerti del
2022, quando ben cinque pezzi inediti vennero presentati live.
Da subito capimmo quanto ci trovassimo di fronte a qualcosa di diverso, di nuovo, ma, allo stesso tempo, di antico.
Negli ultimi anni Robert Smith ha perso praticamente buona parte della
sua famiglia, e la sua enorme sensibilità non poteva non tradursi in
canzoni, questa volta davvero speciali.
Una gestazione che non solo ha dovuto fare i conti con le sempre più
marcate pignolerie di Robert Smith, ma che incontrò nel suo percorso
rallentamenti non facilmente superabili. Da quel “4.13 dream” la band
iniziò a cambiare volto, rinunciando dapprima a Porl Thompson (pronto a
trasformarsi in Pearl e concentrarsi in altre forme artistiche); per
poi riabbracciare Roger O’Odonnell e Perry Bamonte (abbraccio, questo,
in realtà non voluto dal resto dei Cure); subire le lunatiche
prese di posizione di Simon Gallup (“lascio, forse lascio … ok
rimango”); vedere Reeves Gabrels diventare chitarrista del complesso e
aspettare, infine, la piena guarigione di O’Donnell. Sembrerebbe la
trama di una sit com, mentre rappresenta la realtà a cui Smith dovette
fare i conti, accantonando album forse quasi pronti, ma espressione di
un gruppo ormai stravolto nei suoi componenti (non eravamo già
preparati a scartare dal cellophane quel “4.14 scream”? album che,
infatti, non avrebbe mai visto la luce, nonostante fosse stato
praticamente annunciato).
Con una campagna pubblicitaria senza precedenti, il gruppo rompe gli
indugi e annuncia la data tanto attesa: 01 novembre. Facile per un fan
leggere la data in chiave umoristica, avendo già eletto a Santità il
responsabile di tante gioie e dolori.
Insomma, anche se il parto è stato lungo, difficile e travagliato,
possiamo dire che ci siamo, mentre abbiamo tra le mani il
quattordicesimo in studio degli inglesi.
La copertina riproduce “Bagatelle”, una scultura di Janes Pirnat, per
un progetto grafico in cui lo stesso Smith ha svolto un ruolo di primo
piano, coadiuvato da Andy Vella, curatore della grafica dell’album e
cofondatore (con Porl Thompson) della Parched Art, ovvero i
responsabili di quasi tutte le immagini impresse nei dischi della band.
“Alone” ha l’onere di fungere d’ariete (proprio come fu apripista nei
concerti), capace di riportare lo spazio tempo direttamente al 1989,
quando “Disisntegration” venne dato alle stampe. È Robert Smith che
spiega l’importanza del pezzo, quando afferma quanto il brano sia, in
sostanza, una riflessione sul concetto di solitudine e quanto la sua
registrazione rese possibile la realizzazione dell’intero progetto: “Ho
capito che doveva essere la canzone d’apertura e ho sentito che
l’intero disco veniva messo a fuoco”. Il pezzo si regge su una lunga
introduzione in cui archi, chitarre e tastiere (tante) anticipano in
maniera solenne l’ingresso della voce e di quelle liriche che
rimarranno inchiodate nella memoria (parole ispirate dalla poesia
“Dregs” di Ernest Dowson).
“And nothing is forever” è quel brano che vince su tutti, quanto a
capacità di mettere a dura prova le ghiandole lacrimali del
sottoscritto. Come in “Alone” anche nella seconda traccia i Cure non
hanno fretta di partire, lasciando ai synth e a una orchestrazione
carica di effetti il compito di creare l’atmosfera. Ci vogliono più di
3 minuti (praticamente la lunghezza dei tre/quarti dei brani pubblicati
da ogni altra band che non si chiami Cure) per sentire la Voce del
Padrone e, quando arriva, raccomandiamo di tenere sotto mano i
fazzoletti, quando si promette di stare insieme alla persona
nell’ultimo momento di vita.
“A fragile thing” è quel brano dal sound apparentemente più leggero
rispetto agli altri, quello che per melodia e liriche ripercorre uno
schema arcinoto a Robert Smith. Una canzone, comunque, importante negli
equilibri generali di SOALW ed un pezzo che è lo stesso leader ad
inquadrare come la 'canzone d'amore' dell'album: “Ma non è proprio una
canzone d'amore nel modo in cui lo è Lovesong ... parla di come l'amore
sia la più duratura delle emozioni, la più potente delle emozioni,
incredibilmente resistente… e allo stesso tempo incredibilmente
fragile.”
“Warsong” che parte con un inconsueto harmonium (stile Nico o per
rimanere nelle opere di Smith, sullo stile di “Untitled” del 1989) e
“Drone nodrone” (la meno ispirata del lotto) sono le vere novità di
SOALW, canzoni mai presentate in anteprima, neppure nei live
dell’ultimo tour. Entrambe mostrano il lato più incazzoso del progetto,
quello meno devastato sentimentalmente, ma carico comunque di rabbia,
resa al meglio dalle doppie chitarre distorte e onnipresenti di Smith e
Gabrels.
In “I can never say Goodbye” sono ancora i tasti di O’Donnell a
introdurre uno dei pezzi più carichi di pathos. Robert scrive un’ode al
fratello per esorcizzare un dolore altrimenti non codificabile, se non
attraverso un brano, nato per far piangere.
“All I ever am” è l’altra vera novità che, giocata su una introduzione
relativamente breve, è caratterizzata soprattutto dalla batteria
muscolosa di Cooper e dalle tastiere di O’Donnell, per raccontare
l’accettazione che Robert Smith ha di sé stesso.
E poi arriva “Endsong” ed è facile dire che proprio non si poteva
finire diversamente. La più lunga introduzione dell’album (siamo sui 6
minuti) appare come una suite in cui synth, batteria carichissima e
chitarre distorte anticipano il pezzo forse più triste dell’intero
progetto. È la coda di un insieme che trova il suo gemello in quella
“Alone” che apriva il disco, ma con sfumature ancora più rassegnate e
dolorose, tradotte in un sound capace di diventare sempre più violento
nel volgere del pezzo.
Che questo rappresenti un album di intensità superiore, lo abbiamo già
detto; ciò che dobbiamo ancora di più evidenziare, però, è quanto
questo lavoro sia anche il più personale nella carriera artistica di
Robert Smith.
In passato il cantante e chitarrista ha saputo commuoversi e
commuoverci attraverso testi profondi e suggestioni che, solo in parte,
accarezzavano la sua vita reale, facendosi volutamente influenzare dal
mondo esterno.
Con SOALW, Robert si toglie il velo e scrive in prima persona come mai
lo aveva fatto in passato. Dalla citata traccia d’apertura, passando
per le sofferte parole in ricordo del fratello e arrivando alle terre
desolate di “Endsong” ci troviamo (da ascoltatori) dentro i più intimi
pensieri di questo autore e nell’ascoltare queste confessioni ci sembra
quasi di chiedere scusa, quasi stessimo violando una sfera troppo
privata.
Possiamo ribadirlo; se fosse stato un album paragonabile agli ultimi
due in studio, avreste letto ugualmente frasi entusiastiche, ma un
tantino forzate (o faziosamente di parte, scegliete voi, e avreste
indovinato comunque), mentre il parlare di quest’opera è stata la prova
più semplice a cui sono stato chiamato.
Non è solo il nuovo album dei Cure. È l’album che ci ha dimostrato una
volta di più la grandezza di Robert Smith. Per la maggior parte degli
artisti, superati i 60 anni, l’impresa più grande è quella di
mantenersi a livelli accettabili, scongiurando ripetitività da cliché e
senza perdere troppo dell’antica magia compositiva e lirica. Robert
Smith ha fatto qualcosa di più grande; è riuscito ad alzare
l’asticella, vivendo una seconda giovinezza artistica, mentre a noi
spetta il campito più facile, seguirlo e schiacciare il tasto play,
anche se “… E’ tutto finito; non c’è più nessuna speranza, nessun
sogno, nessun mondo”. Perché, è vero, Robert hai ragione, è proprio un
mondo perduto, ma queste canzoni ci fanno sentire meno soli.
(Gianmario Mattacheo)
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