Il
regista di “Buongiorno notte” e “L’ora di religione” porta
al grande pubblico una vicenda poco nota e venuta alla ribalta
più che altro negli anni recenti: la storia di Irene Ida Dalser, amante di Mussolini negli anni precedenti all’ingresso dell’Italia alla
Prima Guerra Mondiale, e del loro figlio Benito Albino, inizialmente
riconosciuto dal futuro fondatore del fascismo, per poi finire
annientato nel peggiore dei modi.
Il
film non ha la volontà di ricostruire tutti i fatti – accaduti
fra i primi anni del ‘900 e il 1942
- in modo totalmente completo e dettagliato, procede infatti
per spaccati, salti e flashback, con frammenti di documentari
dell’epoca per meglio contestualizzare
la vicenda. Ovviamente la storia del ventennio fascista, e
pure la metamorfosi del Mussolini
socialista, rivoluzionario e antimilitarista in interventista
intransigente prima e nel duce d’Italia dopo, vengono
collocate su un adeguato sfondo per dare risalto alla tragedia
personale di Irene e del figlio. La prima, dopo aver venduto
tutto ciò che possiede per finanziare la nascita del Popolo
d’Italia, il quotidiano fondato nel 1915 da Mussolini, viene presto abbandonata
dall’amante in favore di Rachele Guidi (già in relazione da
anni con l’ex direttore dell’Avanti!, i due si sposano con
rito civile nel dicembre 1915), ma continuerà fino alla morte
a rivendicare il suo ruolo di “vera moglie del duce”, sostenendo
anche di aver contratto un legittimo matrimonio del quale
però non esisterebbero documenti scritti. Per tale coerenza
ed intransigenza la donna viene rinchiusa
in manicomio e trattata con una crudeltà superiore a quella
riservata agli oppositori politici (che solitamente finivano
incarcerati o mandati al confino, ed in certi casi direttamente
assassinati). Ancora più commovente la storia
di Benito Albino, raccontata in un modo più dilatato e frammentario
rispetto a quella della madre. Rinchiuso in collegio
già da piccolo, poi affidato ad un tutore, infine arruolato
in Marina, al rientro forzato da una spedizione in Cina viene
anch’egli rinchiuso in manicomio senza alcun motivo, dove
muore nel 1942 a causa di presunte “cure
sperimentali” a base di insulina
che lo portano in coma nove volte. Omicidio di stato quindi.
Ma questi ultimi terribili anni vengono riassunti nel film in un’unica straziante scena dove
il ragazzo, seminudo e sanguinante, imita davanti ad un muro
il duce con una gestualità esasperata. Una costante
del secondo tempo è proprio il rapporto di amore/odio
di Benito Albino – consapevole della propria situazione di
figlio rinnegato – nei confronti del padre, che emerge anche
da queste imitazioni tanto nevrotiche quanto perfette, fatte
per divertire i compagni di liceo, oltre che da altri piccoli
significativi episodi.
Brava
come sempre Giovanna Mezzogiorno, che qui deve interpretare
un personaggio complesso e atipico per l’epoca e per il modello
di donna voluto dal regime, ma bravo
anche Filippo Timi, che interpreta sia Benito padre nella
prima parte, sia il figlio da adulto nella seconda. Non
do né un giudizio da cinefilo, quale
non sono, né da storico (per quello esistono i saggi e i documentari),
ma da semplice spettatore: “Vincere” è un film secondo me
riuscito e coinvolgente, sicuramente non è una visione facile
e adatta a tutti, ma penso che il dramma umano in sé possa
toccare anche un pubblico più ampio di quello tipicamente
impegnato al quale si rivolgono solitamente le opere di Bellocchio.