DEATH 
              IN JUNE
               @ Zoe Club, Milano, 17 dicembre 2011
            Testo: 
              Gianmario Mattacheo
              Foto: 
              Silvia Campese
            
            
            I 
              padri del neofolk (o del folk apocalittico, per chi osa di più), 
              tornano in Italia per altri show, atti a celebrare la trentennale 
              carriera sui palchi.
              I 
              Death in June, in realtà, avevano già fatto tappa 
              in Italia solo pochi mesi fa (ottobre di quest’anno). Le risposte 
              entusiastiche del pubblico hanno, probabilmente, indotto Douglas 
              P. e John Murphy a fissare altre date, per continuare la brillante 
              autocelebrazione della morte a giugno. Oggi 
              tocca allo Zoe Club, il bel locale di Milano da sempre vicino alla 
              musica più tenebrosa.
            Anticipati 
              dai Fire + ICE, i Death in June arrivano sul palco poco dopo le 
              23.00 (è proprio una tendenza italiana quella di iniziare 
              gli spettacoli quando è ora di andare a dormire!); come accennato, 
              ci sono Douglas Pearce (ovvero il signor Death in June) e John Murphy, 
              lo storico percussionista che da anni accompagna ogni esibizione 
              della band.
            
È 
              l’ingresso dei due che rappresenta uno dei momenti più emotivi 
              del concerto: Douglas P., con l’immancabile maschera orrorifica 
              (simbolo della band, al pari della loro musica) e divisa bianca, 
              si presenta al pubblico scuotendo due tamburelli, mentre John Murphy 
              (anch’egli in maschera) è già posizionato ai tamburi.
              I 
              due iniziano uno spettacolo in cui le primissime canzoni risultano 
              influenzate dall’industrial (primo amore dei Death in June): batteria 
              e chitarra, ma anche campionamenti di voce (riprodotta in loop) 
              e rumori vari.
              Quando 
              arriva “Ku Ku Ku”, i Death in June salutano anche l’ultimo pezzo 
              realizzato secondo questo schema, per dar vita a quel folk, denominato 
              apocalittico, nato proprio con la loro musica.
              Il 
              pubblico che ha riempito completamente la sala dello Zoe Club, risponde 
              con gran calore e partecipazione.
              Rispetto 
              all’unico spettacolo dei Death in June che vidi (ormai quasi dieci 
              anni fa!!!), mi sembra di notare tra il pubblico molte meno “teste 
              rasate”, in luogo di un parterre che non nasconde l’amore per la 
              musica dark ed oscura in genere.
              Mentre 
              il concerto prosegue ed ogni brano continua ad essere seguito da 
              un boato di consenso, Douglas P e John Murphy si tolgono la maschera 
              (assai impegnativa per il calore presente in sala), per rimanere 
              a viso scoperto.
              Douglas 
              P. (occhialini scuri alla John Lennon), dopo i primi saluti, invita 
              il pubblico a fare più rumore: “Loud”: il pubblico sembra 
              non attendere altro e regala ai Death in June la giusta dose di 
              chiasso. In 
              particolare, è accolta con un boato la doppietta “Tick tock” 
              ed “All pigs must die” (tratte dal bel lavoro “All pigs must die” 
              del 2001.); ad anticipare i pezzi, Murphy si mette davanti al microfono, 
              sussurrando “Piggy, piggy, piggy”.
              “Kameradschaft”, 
              la miglior canzone di “Take care & control (1998) è un 
              altro pezzo da novanta che il duo non fa mancare e che esalta tutti 
              i fedelissimi, mentre con “Giddy giddy carousel” i Death in June 
              arrivano ad un altro momento cruciale del concerto.
              È 
              doveroso spendere alcune brevi note circa la voce del leader che, 
              in ogni fase dello spettacolo, si presenta sempre profonda, calda 
              al punto giusto e capace di essere espressiva: anche se il folk 
              apocalittico non richiede grandi virtuosismi di sorta, il cantato 
              di Douglas P. è certamente un valore aggiunto alla musica 
              dei Death in June. 
              Da 
              “But what ends when the symbols shatter” (1992) vengono ripescate 
              la canzone omonima (forse una delle meglio riuscite), “Little black 
              angel” e “He’s disabled”, in ricordo di uno degli album più 
              riusciti della “morte a giugno”.
              Sono 
              immancabili e realizzate al meglio “We said destroy” e, soprattutto, 
              “Fall apart”, il brano che, più di tutti, crea un’atmosfera 
              unica in tutto il locale (dello stesso pezzo si ricorda una riuscita 
              cover realizzata dagli Ikon).
              Sul 
              finire c’è ancora spazio per quella “Heaven street”, ovvero il primo 
              grande singolo del gruppo. Il pubblico scoppia in un’ultima grande 
              esplosione di consenso: è partecipazione collettiva fino 
              alle ultime note di un concerto, vissuto in maniera assolutamente 
              genuina e posto in essere con classe. Sì, questo è 
              un gruppo che, almeno una volta ogni dieci anni, merita di essere 
              visto!
            
            
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